Ultime news
domenica 8 Giu 2025

C’è una pagina di storia aversana rimasta a lungo nell’ombra, un capitolo volutamente cancellato dalla narrazione ufficiale che racconta la drammatica fine di una delle più antiche famiglie normanne del Mezzogiorno. È la vicenda dei Rebursa, protagonisti della rivolta antiangioina del 1268, travolti da una repressione che non fu solo militare, ma anche memoriale. La loro colpa? Aver scelto di difendere l’eredità sveva contro l’ascesa dei nuovi padroni francesi.

Quando Carlo I d’Angiò, chiamato dal papa a guidare la crociata contro gli Hohenstaufen, scese in Italia, Aversa – città dalla forte identità normanna – si trovò divisa. Dopo la vittoria angioina a Benevento e l’esecuzione di Manfredi, fu Corradino di Svevia, l’ultimo degli eredi legittimi dell’impero svevo, a tentare una riconquista. La sua sconfitta definitiva e la decapitazione a Napoli nell’ottobre del 1268 segnarono l’inizio di una durissima repressione.

Tra coloro che si schierarono a favore degli Svevi, i Rebursa ricoprirono un ruolo centrale. La famiglia, radicata da generazioni nel tessuto politico e patrimoniale di Aversa, non accettò il dominio angioino. Riccardo Rebursa, figlio di Bartolomeo, guidò l’insurrezione della città, insieme ad altri notabili locali, come i fratelli Capece. Le fonti raccontano che Aversa, insieme a Nola, Palma, Somma e altri centri vicini, si ribellò con decisione alla nuova dinastia, rifiutando di piegarsi all’autorità del re francese.

Ma la risposta angioina fu spietata. Dopo la disfatta sveva, Carlo I ordinò la confisca dei beni di tutti i nobili ritenuti colpevoli di tradimento. I Rebursa furono tra i più colpiti: Bartolomeo e i suoi figli Riccardo, Pietro, Giovanni e forse anche Roberto vennero condannati a morte o giustiziati sul campo. Il loro palazzo e le terre furono assegnati ai fedelissimi del re, tra cui Guglielmo Stendardo, maresciallo del regno, e altri personaggi legati alla nuova amministrazione. Alcuni beni furono ridistribuiti tra ufficiali, cortigiani e membri della burocrazia, come premio per la loro lealtà. Non si trattò solo di un’epurazione politica. Il potere angioino volle colpire anche la memoria. I Rebursa furono oggetto di una damnatio memoriae sistematica: i loro nomi furono rimossi dai registri pubblici, le loro gesta ignorate, il loro ruolo nella storia della città cancellato. I documenti superstiti, spesso indiretti o legati a controversie posteriori, sono le poche voci che permettono oggi di ricostruire quanto accadde.

Non meno dura fu la sorte delle donne della famiglia. Altrude de Rocca, vedova di Bartolomeo, e Margherita di Sorrento, moglie di Riccardo, si ritrovarono private di ogni protezione. Il re ordinò che le mogli e i figli dei ribelli fossero presi in custodia. Da alcuni documenti si apprende che Altrude e Margherita fecero ripetute richieste per ottenere l’assegno di mantenimento promesso dalla corona, ma le loro voci restarono inascoltate per anni. Particolarmente toccante è la vicenda delle figlie. Rosata, figlia di Riccardo e Margherita, aveva solo un anno e mezzo al momento della rivolta. Fu trovata nel castello di Ottaviano, dove i Rebursa avevano possedimenti, e affidata a un castellano fedele agli Angioini. In età adulta fu rinchiusa nel monastero di Donnaregina, come accadde anche ad altre parenti: Elena e Senissora, figlie di Pietro, furono anch’esse costrette alla clausura. Solo Senissora riuscì, dopo quattro anni, a ottenere il permesso di sposarsi, ricevendo una dote elargita dal sovrano, quasi come un risarcimento simbolico.

La famiglia Rebursa, insomma, fu estirpata non solo fisicamente, ma anche simbolicamente. L’azione punitiva non mirava semplicemente a stroncare una ribellione, ma a cancellare ogni traccia di un’egemonia precedente, sostituendola con una nuova narrazione del potere. È in questo contesto che va letta anche la sorte del complesso monastico di San Francesco delle Monache, tradizionalmente legato alla famiglia. Situato nei pressi dell’antico palazzo Rebursa, il monastero rappresentava non solo un centro spirituale, ma anche un presidio di memoria familiare. Secondo alcune ipotesi, fu proprio Altrude a promuoverne la fondazione, forse con il sostegno delle altre donne di casa, trasformandolo in luogo di rifugio e resistenza simbolica.

Non a caso, dopo la caduta dei Rebursa, il complesso divenne oggetto di attenzione da parte dei sovrani angioini, che cercarono di appropriarsene attraverso donazioni e patronati. Un gesto che, al di là della benevolenza apparente, può essere interpretato come un ulteriore tentativo di riscrittura storica: sostituire la matrice fondativa legata ai ribelli con una nuova identità conforme al potere regnante. Oggi, rileggere le vicende della famiglia Rebursa alla luce di documenti e analisi architettoniche significa restituire voce a chi fu messo a tacere. La damnatio memoriae, per quanto efficace nell’immediato, non ha potuto cancellare del tutto la presenza di una dinastia che contribuì a modellare l’identità della città. Tra le pietre del chiostro e le righe degli archivi, la loro storia continua a riaffiorare, come un’eco che resiste al tempo e al silenzio.

Giuseppe CRISTIANO